L’intervento di monsignor Sorrentino alla cerimonia alla Camera dei Deputati, allestita una mostra con gli oggetti del Museo della Memoria di Assisi

“LA MEMORIA DELLA SHOAH NON È UN RITUALE: BARTALI UN GIUSTO DI CUI ABBIAMO BISOGNO CONTRO LE INVOLUZIONI ASSURDE DELLA NOSTRA SOCIETÀ”

Recuperato e pubblicato un romanzo scritto da una bambina ebrea salvata in Assisi negli anni 1943-1944

ROMA – Assisi protagonista, venerdì 24 gennaio alla Camera dei Deputati, nell’ambito della cerimonia per il Giorno della Memoria che il presidente Roberto Fico ha voluto dedicare a Gino Bartali. Nel corso dell’evento il vescovo della diocesi di Assisi – Nocera Umbra – Gualdo Tadino, monsignor Domenico Sorrentino, ha inquadrato la figura di Bartali nell’ambito della rete clandestina che negli anni 1943-1944 portò alla salvezza di centinaia di ebrei.

Nel corso del suo intervento il vescovo di Assisi ha parlato di una testimonianza inedita appena stampata intitolata “Gli abitanti del Castelletto”, scritta da una bambina ebrea che allora aveva appena 10 anni, Mirjam Viterbi Ben Horin, nascosta e salvata ad Assisi e che si inserisce nella storia della rete clandestina a cui ha partecipato anche Gino Bartali.

La Camera ha anche allestito una mostra con alcuni oggetti e documenti contenuti nel Museo di Assisi che resterà aperta a Montecitorio fino al 2 febbraio.

Prima della cerimonia il vescovo monsignor Sorrentino ha fatto omaggio di una copia al presidente Fico che si è commosso nel vedere la grafia e i disegni originali riprodotti nel libro.

Qui di seguito riportiamo l’intervento integrale del vescovo monsignor Sorrentino.

Signor Presidente, Onorevoli, Autorità, gentili signore e signori,

 nel museo della Memoria che ho l’onore di ospitare nel Vescovado di Assisi, spicca una foto in cui Gino Bartali posa insieme al mio predecessore monsignor Giuseppe Placido Nicolini. I due evidentemente si sono incontrati e c’era amicizia tra loro.

Non ci sono, e non ci potevano essere, ricordi di quelle parole che si sono detti nel periodo burrascoso in cui  la loro generosità li portò a collaborare per strappare ad un’oscura follia ideologica e ad un atroce destino centinaia di ebrei che in quegli anni bussarono alle porte di Assisi. Qui il vescovo stesso si fece regista di una rete clandestina, dedita ad accogliere e proteggere gli ebrei. Altrettanto si faceva a Firenze. Pedalando tra queste due città  e nascondendo nella canna della sua bicicletta le carte  di identità falsificate Gino Bartali si guadagnava una benemerenza ben più alta di quelle che gli vennero assegnate come mito del ciclismo: da campione sportivo, si rivelò anche campione di umanità.

Cristiano fervente qual era, aveva in casa una cappellina che ora, per gentile concessione della famiglia Bartali, è al centro del nostro Museo. Una sua parola è scritta all’ingresso, e basta da sola a raccontare l’uomo: «Il bene si fa ma non si dice, e certe medaglie si appendono all’anima, non alla giacca».

Bartali fu uno di quegli uomini dei quali vorremmo piene le nostre comunità religiose, e le nostre comunità civili.

La sua fede dichiarata e praticata era sinonimo di un animo aperto, capace di dono, fino al rischio della vita. Dalla sua fede anche il coraggio di farsi postino della vita e della libertà, quando le ombre fosche del razzismo e dell’antisemitismo si annerirono all’inverosimile divenendo genocidio.

La memoria della shoah non è un ritualismo al quale ci si possa abituare. Le immagini di quel diabolico furore che si abbatté sugli ebrei sono un monito per la civiltà di ogni tempo. Quello che è una volta accaduto, può ancora una volta accadere, e non solo per gli ebrei, ma per tutti i popoli, tutte le culture, tutte le minoranze. L’uomo capace di meraviglie tecnologiche è lo stesso che può assumere il volto dello sterminatore.

La civiltà ha bisogno di giusti che la riscattino dalle sue più assurde involuzioni. Bartali è stato uno di questi.

Secoli prima, nello stesso luogo, un altro “giusto” che si ispirava al vangelo, Francesco di Assisi, aveva preso le parti di tutti gli spogliati della storia, spogliandosi fino alla nudità.

Bartali stava su quelle stesse orme. Ci sono momenti della vita in cui non c’è possibilità di compromesso: devi scegliere tra chi spoglia e chi è spogliato. Un credente autentico sa da che parte stare. Lo chiede la coerenza della fede, ma, anche per chi non ne ha la grazia, lo chiede la coerenza con quei valori fondamentali di giustizia e di fraternità che sono alla base della civile convivenza.

Molte volte mi capita di accompagnare visitatori nel nostro museo. Quando mostro quella macchina che stampava i documenti falsificati non dimentico mai di dare una lettura di quel paradossale messaggio etico che promana da una apparente illegalità. Che cosa di più illegale del falsificare  un documento di identità? Ripeto allora ai visitatori che la legalità è una cosa seria, ma tanto seria, che dobbiamo coglierne l’anima: non c’è legalità, lì dove non c’è moralità. Una legge che porta alla discriminazione, alla persecuzione e allo sterminio, di qualsiasi vita umana, è soltanto una parvenza di legge, alla quale bisogna disobbedire. Diventando complice di una illegalità formale, Bartali si faceva testimone di una legalità sostanziale. Quei nomi falsificati erano in realtà i nomi dati alla dignità, alla vita, alla solidarietà. Gridavano l’inviolabilità di ogni persona umana.

Lo diceva a suo modo, negli stessi mesi, una bimba ebrea che allora aveva solo dieci anni, ed ora vive a Gerusalemme, Mirjam Viterbi Ben Horin,    rifugiata ad Assisi con la sua famiglia sotto il nome falso di Mirjam Vitelli. Oggi condivide con il nostro campione uno spazio del museo. A suo modo correva anche lei. Non con la bici, ma con la fantasia. Scriveva un romanzo che abbiamo voluto pubblicare, e che stamattina esce fresco di stampa come nostro omaggio alla giornata della memoria: “Gli abitanti del Castelletto”. Una storia felice, a prima vista, ma che è l’altra faccia di una storia infelice. Esattamente come quelle carte di identità che Bartali trasportava. A leggere tra le righe, Mirjam racconta la shoah. La racconta, paradossalmente, evitando di raccontarla. La evoca, al lettore avvertito, come una cosa talmente contraria alla natura, all’umano, alla morale, alla dignità, che l’unico modo di poterne parlare, nella sua mente di bimba, è ignorarla. Come una cosa non degna di essere pensata. Qualcosa che non può esistere, e che, in ogni caso, non deve esistere. Un giudizio sulla assoluta ingiustificabilità di quella assurda storia: inimmaginabile, eppure tremendamente vera!

A Bartali dobbiamo dire grazie, perché con la sua bicicletta magica ha tracciato fili di luce in quel buio pesto. Mai come in quella circostanza la sua battuta proverbiale calzava a pennello: tutto sbagliato, tutto da rifare! L’odierna memoria della shoah, e il ricordo di Bartali “giusto tra le nazioni”, ci aiutino a contrastare ogni violenza e a disegnare – non soltanto a sognare – un futuro di pace.