LE MIGRAZIONI E LA PACE

Tavola rotonda a Roma con l'approfondimento del tema da parte del vescovo Sorrentino nell'ottica del Toniolo

ASSISI – Si è svolta nei giorni scorsi presso la Domus Mariae di Roma la tavola rotonda, organizzata dall’Istituto Giuseppe Toniolo di diritto internazionale della pace dal titolo: “Migranti: uomini e donne in cerca di pace”. Tra i relatori anche il vescovo della diocesi di Assisi – Nocera Umbra – Gualdo Tadino monsignor Domenico Sorrentino di cui si riporta la relazione.

MIGRANTI: UOMINI E DONNE IN CERCA DI PACE

Tavola Rotonda presso Istituto Giuseppe Toniolo di Diritto internazionale della pace

Roma – Domus Mariae 19 gennaio 2018

 

Affronto questo tema complesso e spinoso, proposto dal Santo Padre nel Messaggio   per la giornata mondiale della pace e or ora illustrato dal card. Turkson, a partire da due prospettive a prima vista  lontane, ma che in realtà offrono spunti complementari e convergenti.

La prima attinge al pensiero del beato Giuseppe Toniolo (1845-1918), che dà il nome e il senso all’Istituto di diritto internazionale della pace, voluto dall’Azione Cattolica a partire appunto da  una intuizione del Toniolo, sullo sfondo delle macerie provocate dalla prima guerra mondiale; la seconda è la mia esperienza di pastore,  impegnato, come tanti altri confratelli in tutta Italia, nell’accoglienza dei migranti.

 

  1. Toniolo e il fenomeno migratorio.

 

Il fenomeno migratorio, che oggi ci sta tanto interrogando, non è certamente nuovo. Nuova però è la condizione del mondo in cui esso si colloca. Nuova è la dimensione e la complessità in cui esso si esprime.

La nostra Italia fa oggi i conti con una immigrazione massiccia, a cui non era abituata. Conosce invece bene l’emigrazione, di cui però rischia di dimenticare i periodi più difficili e la lezione per l’attualità.

Il Toniolo, economista e sociologo, si interessò ripetutamente al tema sulla sua Rivista di scienze sociali e discipline ausiliarie, e ne scrisse nel suo Trattato di economia sociale.

Ne trattò in particolare nel  1910 a proposito di una Associazione – Italica Gens – che era stata costituita in ambito ecclesiale e missionario, con l’appoggio del governo italiano. Fu per lui l’occasione per fare il punto sull’emigrazione italiana soprattutto negli Stati Uniti, ed anche per richiamare alcuni principi generali da lui sviluppati in chiave sociologica ed economica nel suo Trattato.

A seguire il profilo che egli disegna degli emigranti italiani in altri Paesi, sembra di leggere la situazione di tanti immigrati e rifugiati di cui oggi facciamo esperienza nel nostro Paese, con l’unica – certo non piccola – eccezione che ai nostri emigranti di quel tempo veniva risparmiato l’ancor più triste destino degli immigrati di oggi, e cioè quello di doversi spesso allontanare dalla patria per sottrarsi alla violenza, mettendosi in fuga con l’aiuto infido di trafficanti senza scrupoli e su barche mal messe che troppe volte diventano bare.

 

Scriveva dunque il Toniolo:

 

«L’Italia ha alcuni milioni di suoi figli di là dagli oceani, in massima parte nelle Americhe…. le loro condizioni sono in prevalenza non buone; alcuni sono abbandonati, isolati in regioni inospiti, soggetti a pericoli e sopraffazioni, altri viventi in ogni strettezza,  affollati nei quartieri cittadini,  mal visti dai paesi che ospitano; molti sono analfabeti; tutta gente che in generale si distingue da quella di altri popoli per il tenore di vita più basso, più povero e per la minore considerazione di cui gode….  Tale diversa condizione è spiegata dal fatto che la nostra emigrazione, a differenza di altri, è povera; essa non è appoggiata dal capitale come la inglese e la tedesca; perciò, mentre quelle si avviano nei paesi nuovi per impiantare imprese agricole ed industriali con progetti determinati e studiati, e con mezzi adeguati al buon successo, i nostri lavoratori invece si riversano nei paesi di immigrazione a masse avendo a disposizione solo le braccia per lavorare…. Essi quindi, necessariamente, come manodopera informe gettata sui mercati americani, vengono disgregatamente assoldati e sfruttati, quale strumento passivo dal capitale straniero»    (Opera Omnia, Scritti Spirituali II, pp. 168 – 169.

 

In considerazione di ciò, il Toniolo elogiava la neonata associazione missionaria ed insieme apprezzava l’appoggio statale, individuando tutta una serie di provvedimenti, che avrebbero dovuto costituire per i nostri immigrati all’estero esattamente quello che oggi papa Francesco sintetizzerebbe con i quattro verbi: accogliere, proteggere, promuovere, integrare (vedi Messaggio per la pace 2018 e Messaggio per la giornata dei migranti).

 

Tra le altre cose auspicava che i nostri emigranti potessero usufruire anche di scuole, e di scuole di italiano, per non perdere il senso della loro origine. Lamentava: «Una delle difficoltà più gravi alla conservazione della lingua e della nazionalità dei nostri emigrati e che agisce in favore dell’assorbimento da parte dei paesi di immigrazione è la tendenza che quelli hanno di immedesimarsi sempre più nella vita del paese fino al punto di voler nascondere la propria origine, come causa di vergogna, con la trasformazione del nome; e molti genitori non fanno insegnare ai figli l’italiano, perché “non porta moneta”» (ivi p. 173). Citava a tal proposito il vescovo di Cremona Geremia Bonomelli[1], uno dei pastori che più si distingueva, insieme con monsignor Scalabrini[2], per la sensibilità verso i nostri emigranti: «Molte migliaia di italiani, emigrati negli Stati Uniti, alla seconda o alla terza generazione sono assorbiti dagli americani, cessano di essere italiani, E, ohimé, assai volte cessano di essere cattolici, con la lingua della patria perdendo anche la religione della patria».

 

Passava poi il Toniolo a riassumere alcuni concetti generali di ordine sociologico, mostrando come l’emigrazione, pur avendo tanti risvolti penosi sulle persone  – risvolti da contenere e contrastare in ogni modo – in sé poteva considerarsi un fenomeno positivo a tanti livelli, per il fatto che l’intreccio di culture e dunque di doni diversi, come anche la migliore distribuzione demografica in terre capaci di assicurare sostentamento,   era fatta per portare effetti di crescita umana, culturale, economica. Auspicava in particolare: «L’emigrazione nostra italiana, sociale per eccellenza, cioè sciolta da ogni intendimento di colonizzazione politica, potrà assurgere ad una funzione di civiltà. Invero, come ebbi ad   illustrare altrove (Trattato di economia sociale introduzione parte III capitolo IV sulla “popolazione”)  il flusso spontaneo di emigranti, che, senza distinzione di colonie nazionali o straniere, scende a tutte le spiagge, in tutti gli Stati, tra tutte le razze, al pari della circolazione del sangue nel corpo umano, è  condizione indispensabile di vita e di sviluppo biologico e spirituale dell’umanità» (ivi p.181).

 

Credo sia istruttivo e stimolante leggere l’immigrazione dal punto di vista della emigrazione: soprattutto se questo ci spinge a praticare, sul piano morale, politico e programmatico, la regola d’oro del non fare gli altri quello che non vuoi sia fatto a te o meglio del fare agli altri quello che vuoi sia fatto a te. Non si può ragionare con due registri diversi, quando ci riferiamo all’emigrazione italiana all’estero, e quando si prende in considerazione l’immigrazione in Italia da altri paesi.

 

Alcuni aspetti del pensiero del Toniolo su questa materia risentono del clima  nazionalistico del tempo e sono anche figli di una ecclesiologia alquanto trionfalistica, ancora lontana dalla sintesi biblica del Vaticano II.  E ciò ad esempio quando Toniolo interpreta l’emigrazione con le categorie del confronto fra civiltà auspicando che l’ampia presenza degli italiani nel mondo avesse anche un compito di irradiazione della civiltà cristiana e quando, ragionando di geopolitica, si mostrava  allarmato del fatto che grandi popoli portatori di civiltà lontane dalla quella cristiana – ad esempio i cinesi – si stessero aprendo un varco migratorio verso di noi, che avrebbe portato il confronto delle civiltà sullo stesso suolo europeo. È il  problema che anche oggi si agita spesso in termini xenofobi, e che invece va affrontato realisticamente con una cultura giuridica capace di assicurare spazi di confronto morale  e culturale all’insegna della reciproca conoscenza e accoglienza, come anche del rispetto dei diritti non solo personali ma anche sociali, in termini di  ordinata composizione degli interessi e delle condizioni di vita. Un tema, quest’ultimo, da porre convintamente in agenda, anche se oggi siamo ancora sollecitati dal primo stadio di questa problematica, sicuramente più vitale ed urgente, che riguarda i diritti umani fondamentali.

 

Quando Toniolo nel 1917 propose a Benedetto XV la creazione di un istituto di diritto internazionale per la pace, nella linea di quello che oggi l’Azione Cattolica ha realizzato, non pensava in primo luogo al problema delle migrazioni, ma additò una prospettiva che  può essere applicata anche a tale questione: formulare e proporre un diritto internazionale, che sia auspicabilmente condiviso, perché, nel rispetto delle persone e delle nazioni, si annullino o almeno si riducano  i motivi che scatenano conflitti che hanno, tra le altre conseguenze, anche quella di mettere in fuga intere masse di uomini e donne alla ricerca di pace e di luoghi ospitali.

 

 

 

  1. La pastorale degli immigrati

 

La Chiesa italiana si è trovata in questi decenni a passare dalla prospettiva della pastorale degli emigranti a quella della pastorale degli immigrati. I Toniolo, i Bonomelli e gli Scalabrini del nostro tempo sono oggi la grande famiglia della Caritas che, in tutta Italia, a livello centrale e nelle Chiese particolari, si è attivata sia nel monitoraggio del fenomeno – i rapporti annuali della Fondazione Migrantes lo attestano – sia nella concreta mobilitazione: accanto alla Caritas, ci sono anche tanti centri di volontariato.

Un impulso deciso è venuto da papa Francesco.  Ci rimane scolpito nell’animo, all’inizio del suo pontificato,   il viaggio a Lampedusa. Personalmente ricordo la commozione del papa quando, il 4 ottobre 2013, visitò ad Assisi quello che, proprio sulla base del messaggio da lui lasciato, è successivamente diventato il Santuario della Spogliazione. Il giorno prima c’era stata  un’ennesima strage a Lampedusa. Parlando agli ospiti della Caritas  diocesana nella sala  che ricorda l’episodio in cui Francesco di Assisi si spoglia di tutti i suoi beni, il papa disse: «Tanti di voi sono stati spogliati da questo mondo selvaggio, che non dà lavoro, che non aiuta;  cui non importa se ci sono bambini che muoiono di fame nel mondo; non importa se tante famiglie non hanno da mangiare, non hanno la dignità di portare pane a casa; non importa che tanta gente debba fuggire dalla schiavitù, dalla fame e fuggire cercando la libertà. Con quanto dolore tante volte vediamo che trovano la morte, come è successo ieri a Lampedusa: oggi è un giorno di pianto!»

 

Non ho titolo, e nemmeno informazione sufficiente, per dare statistiche su quanto la Chiesa italiana sta facendo in questo ambito, sia per accogliere, sia per sensibilizzare, oltre che la comunità cristiana, anche la società civile. Constato che la politica  si trova  frastornata ed impari a fronteggiare un fenomeno che avrebbe bisogno di ben altra lettura  ed iniziativa non soltanto nell’ambito della nostra nazione, ma anche a livello europeo. Siamo una società che si dimena tra spinte solidaristiche e paure xenofobe.

Abbiamo ascoltato negli ultimi mesi – senza alcun esito legislativo – dibattiti riguardanti la concessione della cittadinanza  agli immigrati. Non saprei entrare tecnicamente nel merito. Mi pare tuttavia evidente ­–  una vera questione di civiltà – che i diritti umani degli immigrati non debbano ridursi a dichiarazioni vuote,   e quanti giungono sul nostro territorio a cercare una speranza per la loro vita  non debbano restare eternamente ai margini ed abbiano invece la possibilità  di inserirsi, integrarsi e ricevere non solo opportunità  di lavoro ma anche spazi  di partecipazione sociale e politica

 

Ma più che parlare in termini generali, vorrei portare qui un contributo di esperienza, avendo “imparato” in prima persona  la condizione di sofferenza di tanti immigrati, quando ho deciso di aprire la mia stessa casa, proprio all’ingresso della Sala della Spogliazione, ad alcuni richiedenti asilo accolti dalla Caritas.  Da quel momento anche la mia vita di vescovo è, in qualche modo, cambiata: forse con qualche piccolo problema organizzativo, ma sicuramente con un vantaggio spirituale, umano e forse anche pastorale, per l’impulso che in questa maniera ho potuto dare all’intera diocesi. Cinque donne nigeriane si sono successivamente avvicendate, non come semplici assistite, ma in qualche modo come parte integrante della mia famiglia. Mi ero tante volte sentito chiamare “padre”, ma solo da queste donne nigeriane mi sono sentito chiamare – come è forse loro costume – “papà”.  Donne giunte, come tante, sui barconi. Dando la sua disponibilità, come altre Caritas e organizzazioni sociali dell’Umbria, la nostra Caritas ha scelto di non privilegiare grandi strutture e grandi numeri, ma case a misura d’uomo, comunità,  specialmente religiose, in cui accogliere ha voluto significare anche  un rapporto umano, caldo, premuroso,   per aiutare i singoli rifugiati in modo personalizzato anche sulla via di una vera integrazione. Ho imparato che l’accoglienza è fatta non soltanto del dare “cose”, ma dell’assicurare un tessuto umano, direi familiare.

Anche per me non è stato facile. Il problema del capirsi, dell’aprirsi, della fiducia reciproca, si è posto più di una volta. Ma ho potuto anche sperimentare quanto arricchente sia il contatto umano, quando si entra in una vera familiarità. Ho davanti agli occhi il caso di una di queste rifugiate      che è in procinto di lasciare la mia casa. Ho potuto, in questo tempo che è stata con me, conoscere da vicino una realtà di cultura, di sofferenza, di sogni e di speranze spesso attraversati dalla frustrazione e dalla disperazione. Questa donna venuta con due sorelli minorenni era stata all’inizio un problema per qualche modo un po’ rude con cui si era atteggiata. Vivendo in casa con me, ha assunto una fisionomia di grande umanità, direi di mitezza, coi suoi grandi occhi spesso velati di tristezza. Ho avuto la gioia di darle il battesimo (era cristiana, ma non ancora battezzata). La sua umanità si è espressa in particolare quando a tragedia si è aggiunta tragedia: aveva  perso un fratello nella traversata, e qualche giorno fa ha avuto la notizia che uno dei suoi due bambini, lasciati in Africa e affidati ad una parente, è morto in un incidente stradale insieme con la tutrice. Questo suo condividere con me e con la comunità cristiana il suo dramma, ci ha fatto misurare da vicino una questione umana che spesso, nel dibattito pubblico, non viene abbastanza avvertita. Di immigrati si parla solo come di un problema. Essi sono, agli occhi di molti, dei numeri dietro i quali raramente affiorano i volti.  Solo il contatto ravvicinato permette di mettersi davvero nei loro panni. A stare con loro si  comprende  che non ha senso e non è giusto fare su di loro discorsi astratti. Sono umiliato quando anche nella comunità cristiana circolano stereotipi che dipendono da scarsa conoscenza o da paure orchestrate da partiti e tendenze politiche ispirati a una chiusura preconcetta. Certo, occorre anche  comprendere che alcune espressioni di insofferenza, di resistenza, di rifiuto,   sono motivate da difficoltà  obiettive della società italiana, dove c’è ancora tanta povertà. Si rischia la guerra tra poveri! Si può anche comprendere che alcuni episodi di violenza, che riguardano un numero esiguo di immigrati, possono destare paura e reazioni. Ma quando ci si pone dal di dentro, e si stabiliscono rapporti umani di tipo veramente personale e familiare, le cose cambiano.

Come Chiesa abbiamo il dovere di controbattere una cultura xenofoba che, ingenerosamente, sente e presenta gli immigrati tout court come dei pericoli o dei problemi. La nostra, se siamo cristiani, non può che essere una cultura dell’incontro.

I problemi evidentemente ci sono e non vanno sottovalutati.  È chiaro che il bisogno può favorire, nel grande numero di quanti giungono nella nostra nazione, la tentazione di rendersi disponibili ad azioni illegali e immorali, persino di terrorismo o di violenza. È noto quanto, nel campo degli immigrati, si insinuino fin dai luoghi di origine le forze di una criminalità che organizza traversate di migranti finalizzate a loschi progetti di sfruttamento sessuale e lavorativo. Ma non si può fare d’ogni erba un fascio. E se occorre tenere ben fermo il quadro generale delle esigenze di legalità e di ordine pubblico, non è lecito perseguirle senza tener conto dei diritti umani fondamentali che non nascono con le leggi, ma le precedono, e vanno solo da esse riconosciuti, protetti e promossi. Generalizzazioni criminalizzanti sono fatte solo per alimentare la paura e mettere premesse di odio, diffidenza e rigetto.

 

Una delle cose che non sempre vengono messe in evidenza nella pubblica opinione  è il fatto che gli immigrati, con la loro presenza, il loro lavoro, la natalità che essi esprimono in molti casi con un’aliquota superiore a quella dei cittadini europei, costituiscono un contributo positivo ad alcune istanze   demografiche ed economiche della nostra società. A un tale aspetto positivo va aggiunto il fatto che,  anche dal punto di vista dell’arricchimento culturale, religioso, democratico, l’esperienza ravvicinata della diversità può costituire una  grande opportunità. L’esperienza del cosiddetto “spirito di Assisi”, delineato sulla base di quanto fece nel 1986, nella Città di San Francesco, papa Giovanni Paolo II, convocando tutti i leaders religiosi in preghiera per la pace, è una grande via di crescita delle religioni stesse nella direzione del reciproco rispetto, della tolleranza e della pace, ed insieme un non piccolo contributo perché vengano isolati e resi innocui in ogni area religiosa i gruppi fondamentalisti.

 

Interessante quanto ha recentemente detto l’arcivescovo di Milano Delpini: «Il fenomeno migratorio si presenta come quel chairòs che ci permette di rileggere e rilanciare tutto il bagaglio della nostra tradizione ambrosiana [e noi potremmo dire “cristiana” tout court], avendolo riletto e purificato alla luce del potere di attrazione universale della croce di Cristo».

 

È passato un secolo dalla fine della prima guerra mondiale. Essa registrò, oltre innumerevoli morti e feriti, un milione e 200 mila profughi. Il vescovo di Ferrara – Comacchio, mons. Giancarlo Perego, già direttore di Migrantes, ha fatto notare che cent’anni fa gli sfollai del Nord Est furono accolti in tutta Italia nei campi profughi, ma anche presso tante famiglie.   “Solo nei campi profughi  – osserva – avvennero allora sollevazioni”, mentre fu del tutto ordinata e pacifica l’accoglienza nelle famiglie. Lezione da imparare.  Anche oggi, sui 30mila richiedenti asilo in carico alla Caritas (sui  200 mila totali), è bello che in molti casi l’accoglienza  sia organizzata attraverso un’ospitalità diffusa, in cui sono coinvolte 500 famiglie.

 

Su questo aspetto vorrei spendere una parola, che riguarda insieme la condizione della comunità cristiana e l’accoglienza dei migranti e, più in generale, l’attenzione alle povertà.

 

Il Toniolo mise a fuoco sul piano sociologico un problema di cui, ai suoi tempi, si vedevano  solo i prodromi, e che è ora esploso in tutta la sua virulenza. Lo chiamava “atomizzazione”, per indicare il processo di disgregazione sociale che rende le persone sempre più separate e sole, “atomi” vaganti. Più o meno quello che Bauman ha poi teorizzato come “società liquida”. Viviamo in una società in cui, alla grande confusione valoriale, si aggiunge una grande disgregazione delle relazioni, a partire dal nucleo fondamentale della famiglia. La Chiesa soffre anch’essa di questo orizzonte problematico, ma è chiamata a fare di questa sfida una “leva”, ripartendo dal vangelo, e mettendo in atto una pastorale che sia di “ritessitura” delle relazioni.  Può e deve  fare questo perché  esperta non soltanto del sacramento del matrimonio, e dunque della bellezza della famiglia coniugale, genitoriale e parentale, ma anche di quella grazia specifica, propriamente ecclesiale, che è la “familiarità spirituale”: l’essere e il sentirsi “fratelli” e “sorelle” in Gesù. La comunità cristiana dei primi tempi s’impose a una società prevalentemente ostile anche per questa sua capacità di generare – nella discrezione e nel calore delle “case”, quando non c’erano ancora né diocesi e parrocchie né cattedrali e strutture pastorali – tante “famiglie spirituali”, in cui il vangelo era vissuto – almeno ci si provava! – in modo  tale che – a detta degli Atti degli apostoli – si era un cuor solo e un’anima sola, si mettevano in comune persino i beni  materiali, e pertanto tra i cristiani non c’erano bisognosi (cf At 4,34).  La soluzione del problema della povertà richiede non soltanto adeguate legislazioni e provvidenze economiche, ma una società che torni ad essere famiglia. Un’istanza che ha avuto, nella modernità, anche una versione “laica” nella “fraternité” sventolata della rivoluzione francese. Ma è facile osservare come proprio questo ideale fraterno, nella triade “liberté, égalité, fraternité”, risulta il più evanescente nel mondo contemporaneo. La Chiesa, con la forza del vangelo, ha una marcia in più, e la deve innestare non soltanto per essere sempre più se stessa, ma anche a vantaggio dell’intera società. Se i nostri immigrati, come tanti nostri poveri, potessero trovare in nuove famiglie spirituali costruite intorno al vangelo il loro luogo di accoglienza, la Chiesa esprimerebbe al meglio il suo carisma e la sua missione. Anche in questo saremmo in linea col Toniolo che, di fronte alla prospettiva dell’atomizzazione, sottolineava l’urgenza di promuovere una ritessitura organica della società, attraverso la promozione dei corpi intermedi che fanno da tessuto connettivo e protettivo tra individuo e Stato. Ovviamente il primo – naturale e fondamentale – “corpo intermedio” è la famiglia.  Oggi la rinascita della famiglia, nel tempo della sua crisi radicale, passa, come ai primi tempi del cristianesimo, attraverso la promozione  di “famiglie spirituali”, incardinate sul vangelo, e pertanto accoglienti e integranti. Ad Assisi ne abbiamo fatto un progetto pastorale di rinnovamento delle parrocchie, espresso sinteticamente col termine di “famiglie del vangelo” (più precisamente Comunità Maria Famiglie del Vangelo). Famiglie chiamate ad essere luoghi e nuclei di evangelizzazione, di fraternità, di accoglienza. Anche rispetto al problema dei migranti, l’ideale ad esse proposto è quello di aprire il cuore e le case, sull’esempio delle prime comunità cristiane. Non è certo una soluzione “magica” e immediata al problema dei migranti e di infinite altre povertà: ci vuole tanto altro. Ma la prospettiva di recupero fraterno della vita ecclesiale e sociale, anche nel grande e complesso problema delle migrazioni, è la sfida del futuro.

 

[1] Bonomelli, vescovo di Cremona, discusso per il suo “conciliatorismo” e criticato per questo dal cattolicesimo più intransigente ed anche più volte ripreso dalla Santa Sede – fu il fondatore, nel 1900, dell’«Opera per gli emigrati italiani all’estero».

[2] Beato Giovanni Battista Scalabrini, vescovo di Piacenza, fondatore dei missionari di san Carlo Borromeo (scalabriniani) per gli italiani all’estero.