Omelia del vescovo monsignor Domenico Sorrentino al funerale di don Francesco Angelini

23-03-2021

L’ultima parola don Francesco non me l’ha pronunciata. Gli era ormai impossibile. Ma ha potuto scrivermela in un messaggio con un pizzico di humour che faceva trapelare   la preoccupazione ma anche la speranza. Mi scriveva “grazie”. Aggiungendo una sua foto con il casco dell’ossigenazione, annotava: mi riconosce? Un extra-terrestre? Abbiamo sperato e pregato con lui. È arrivato il suo momento di dare il tributo di sofferenza che innumerevoli nostri fratelli e sorelle stanno dando a questa prova davvero universale. Sono passati per questo tunnel tanti nostri fedeli, tanti consacrati e consacrate, vescovi e sacerdoti. Molti hanno potuto rivedere, dopo aspra sofferenza, la luce di questa terra. Altri, come il nostro don Francesco, sono passati alla luce del cielo. Facciamo spazio a questa luce, che ci arriva dal mistero eucaristico, cuore della vita cristiana e in particolare del ministero presbiterale. Deponiamo su questo altare le nostre domande: dov’è Dio, in questa grande prova? L’Eucaristia ci risponde: è con noi, a soffrire con noi, a donarsi con noi. “Annunciamo la tua morte Signore”. La nostra morte nella sua morte, la sua morte nella nostra. Dio si è davvero legato a fil doppio al nostro destino, per cambiarlo dall’interno, in un destino di vita e di luce. Un destino di cielo. Dentro il casco che faceva fatica a sopportare, don Francesco si sentiva un extra-terrestre. Ma in certo senso è proprio del nostro essere cristiani essere un po’ così, fra terra e il cielo. La nostra vita è un pellegrinaggio e la nostra patria è lassù.

Quante volte don Francesco, dando l’ultimo saluto liturgico ai defunti, lo avrà ricordato a consolazione e speranza per tutti. Oggi io riecheggio le sue parole per noi, fratelli dell’unico presbiterio, qui presenti in rappresentanza di tutti. Le riecheggio soprattutto per la sorella Vincenza e il fratello Mario come per tutti gli altri familiari. Mi diceva Vincenza che le ultime parole che era riuscito a scrivere per lei sono state: “ciao, ciao”. Il saluto che è insieme un addio e un arrivederci. Viviamo questo momento di congedo nella luce dell’Eucaristia. Un “ciao” che si colora di vita.  “Chi mangia la mia carne e bene il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno”. Promessa che si fa, come abbiamo ascoltato dal libro dell’Apocalisse, scenario di cieli nuovi e terra nuova, dove “Dio asciugherà ogni lacrima, e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate”. Sì, imploriamo ancora una volta, da questo altare, “cieli nuovi e terra nuova”. Il Signore conceda all’umanità di uscire da questa prova, vivendola come un grande momento di riflessione, di conversione e di solidarietà. La quaresima della Chiesa si intrecci con la quaresima dell’umanità, nella speranza di un’unica Pasqua. E proprio in questa prospettiva pasquale vogliamo  ripercorrere  alcuni tratti del dono che Dio ci ha fatto con la vita e il ministero di don Francesco. In tempi normali, non sarebbe mancato, alla fine della celebrazione,  qualche rievocazione  da parte di quanti hanno conosciuto don Francesco da vicino. Oggi dobbiamo accontentarci  di qualche breve parola. Ma la brevità non toglie nulla all’intensità dei sentimenti, semmai la rafforza.

Desidero ripensare a don Francesco a partire dai  ricordi più freschi. Ho avuto modo di incontrarlo   in occasione della recente  visita pastorale a Bastia, quando, per alcuni giorni, in due successive settimane,  mi  sono   intrattenuto a condividere con i sacerdoti la mensa fraterna. È bello per me ricordarlo  dentro questa bella comunità presbiterale che svolge il suo servizio in serenità, con sentimenti di vera e premurosa fraternità. Don Francesco era lì – mi sembra di vederlo al suo posto –, con la sua personalità, con le sue memorie, con le sue considerazioni, con il suo piglio critico ma sempre costruttivo, con la sua disponibilità a mettersi in gioco. Il senso della famiglia, che nutriva congiuntamente per la sua famiglia naturale e per la sua famiglia presbiterale, è un’eredità che vogliamo far nostra.Le diverse comunità parrocchiali in cui ha svolto il suo servizio lo ricordano con affetto e gratitudine. Penso in particolare alla parrocchia di San Giuseppe Artigiano a Gualdo, dove si impegnò anche alla costruzione del tempio materiale, alle parrocchie di Cannara e Castelnuovo, all’attuale parrocchia di Bastia. Ho ricevuto una testimonianza toccante dall’Azione cattolica adulti di Gualdo, che ne ha apprezzato il servizio discreto e generoso. Si ricordavano  persino  le foto che egli inviava dalla Terra Santa, dove spesso si recava, e dove batteva il suo cuore. Chissà quanto potrebbero  raccontare di lui i “corsisti”, ai quali si è dedicato con passione, e per i quali stava svolgendo un servizio anche al di fuori della  diocesi. Ricordo l’espressione che gli era cara, quando sottolineava l’efficacia straordinaria dei “tre giorni” di convivenza de  “cursillos”, parlandone come di una “sproporzione” che era il segno di un flusso speciale di grazia. Non dimentico il servizio che ha svolto per anni nell’Ufficio per gli insegnanti di religione, che ne conservano un ricordo grato. Tutti motivi per lodare il Signore.

In particolare desidero riprendere una cosa che spesso mi diceva, e che metteva a nudo il suo cuore di pastore: quando parlavamo dell’esigenza di rinnovare la pastorale parrocchiale, superando anonimato e freddezza,  mi sottolineava che era d’accordo, e me ne faceva di rimando un’applicazione alla stessa visione pastorale delle diocesi, che oggi si tende ad accorpare in territori più ampi per esigenze storiche difficilmente oppugnabili. Mi faceva allora presente che in questo indirizzo c’è un grande rischio, e cioè che al vescovo l’incremento quantitativo e territoriale delle sue responsabilità renda ancora più difficile, di quanto già non lo sia, quel contatto ravvicinato, di cui invece sacerdoti e fedeli sentono tanto bisogno. Difficile dargli torto, anche se ci sono delle ragioni non piccole nell’attuale strategia di ridefinizione dei confini diocesani. Questa esigenza di calore, di contatto, di fraternità vissuta, ci sia di sprone.

Don Francesco è stato un prete che credeva alla sua vocazione. Ha sentito la bellezza di essere pastore, impersonando Gesù, il Buon Pastore. Le ultime settimane, in cui il suo altare è stato il letto di un ospedale, sono state di purificazione. Come altri, in questo periodo, ha dovuto affrontare la morte senza la dolcezza della vicinanza nostra e dei suoi cari. Cosa davvero atroce! Fino a che è stato lucido, ha potuto sentire, a distanza, che c’eravamo. Ha sentito la preghiera che abbiamo levato per lui, confidando anche nell’intercessione del venerabile don Antonio Pennacchi. I disegni di Dio erano altri. “Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla”. Caro don Francesco, sei stato a servizio del Buon Pastore. Ora puoi veramente ripetere, a edificazione di tutti quanti noi, e dei tanti che ti hanno conosciuto e amato, questa parola del salmista. Noi ti accompagniamo con dolore, ma anche con speranza, all’abbraccio del Padre. Ti ringraziamo per la vita spesa nel ministero. Ti immaginiamo sorridente nell’azzurro del cielo, sentendoci consolati e incoraggiati dal tuo sorriso”.