Omelia del Vescovo monsignor Domenico Sorrentino per i funerali di Don Germano Mancini

17-08-2021

OMELIA IN MORTE DI DON GERMANO MANCINI – 17.8.21

Don Germano se ne è andato come un combattente.  Quando l’ho lasciato, domenica pomeriggio, con una preghiera e una benedizione, sapevo bene quanto precaria fosse ormai la sua situazione, ma lui ancora mi evidenziava che qualche valore era risalito e me lo diceva con la speranza di potercela fare ancora una volta.  Lo reggeva un amore alla vita che ormai faceva corpo con quella poltrona che da tempo lo teneva inchiodato, e gli impediva quelle passeggiate sui monti il cui solo ricordo gli faceva brillare gli occhi. Domenica, giorno della risurrezione e festa dell’assunzione di Maria al cielo, era arrivato il suo momento. Per lui si realizzava la parola appena ascoltata sulle labbra dell’apostolo Paolo: «Quando sarà distrutta la nostra dimora terrena, che è come una tenda, riceveremo da Dio un’abitazione, una dimora non costruita da man d’uomo, eterna, nei cieli».

La nostalgia di questa dimora eterna egli aveva voluto incidere anche nelle forme e nei colori di questa chiesa, alla cui costruzione si dedicò anima e corpo, perché il terremoto che aveva messo in ginocchio Nocera fiorisse qui in un tempio arioso, dove l’azzurro del cielo si fondesse con il verde dei monti. Così amava parlarmi della sua chiesa, orgoglioso di averne fatto un luogo ispirante, dove la gente potesse ritrovare insieme la bellezza della preghiera e la gioia della fraternità.

Ha voluto a tutti i costi morire qui, sapendosi   ben accudito dall’amore della sua comunità, in particolare di chi come Enrico gli ha assicurato una presenza sulla quale poteva sempre contare. Il dolore del presbiterio, quello di questo comunità parrocchiale e quello dei familiari di don Germano, sono oggi lo stesso dolore. Ancora una volta a Nocera Scalo si è toccato con mano l’affetto che il popolo di Dio sa nutrire per i suoi pastori e che affonda le radici nel mistero stesso della Chiesa nutrita dall’unico pane di vita.

«Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno», abbiamo appena ascoltato.

Un sacerdote appare agli occhi dei suoi fedeli soprattutto l’uomo dell’eucaristia. È il sacramento intorno a cui la Chiesa continuamente si costruisce. Il sacerdote lo vive dalla prospettiva dell’altare, il simbolo di Cristo che si dona.

Negli ultimi tempi altri confratelli hanno dovuto prendere il posto di don Germano a questo altare, il suo altare era ormai la poltrona del suo dolore. La benedizione con cui ho potuto congedarlo da questa terra domenica scorsa è stata come il sigillo a questa messa terrena che egli finiva di celebrare per spiccare il volo verso l’eucaristia celeste, il grazie eterno cantato dagli angeli e dai santi.

Uomo dell’altare, ma anche uomo dell’ambone. In questa nuova chiesa l’ambone è vistosamente emergente come trono della Parola. Qui la Parola che viene dall’alto si intrecciava con la parola maestra di un uomo la cui la predicazione a stento si distingueva dal suo talento giornalistico e dalla sua passione per l’informazione e il dibattito pubblico. Un dono messo a servizio del Vangelo. Tra le diverse vie offerte dall’odierno paesaggio mediatico, egli era rimasto ancorato a quella più classica, alla carta stampata, che  maneggiava con rara maestria, e che era diventata per lui una “malattia”, al punto che dopo i lunghi anni passati a servizio della «Gazzetta di Foligno», tornando a tutto tondo nella sua terra,  non ha saputo fare a meno di iniziare l’avventura dell’«Altra Nocera», di cui con orgoglio sottolineava  che era un periodico capace di reggersi da sé. E mi spiegava il segreto di una stampa che, per non affondare nelle fatiche a cui oggi va soggetta, deve avere quel piglio di attualità che sa interessare e coinvolgere il lettore. Questo lavoro, al di là del “mestiere” di giornalista, era per lui soprattutto “mestiere” di evangelizzatore. Un modo di far entrare il Vangelo nella vita di ogni giorno, perché la verità trionfasse sempre e i signori della disinformazione venissero snidati e disarmati. Può darsi che, con questa tempra di combattente, gli sia capitata qualche disavventura o qualche eccesso. Non ci si cimenta mai con una grande passione senza essere feriti e magari ferire. Ma la sua cultura e la sua bontà d’animo finivano per dare anche a questo rischio il riscatto della nobiltà interiore e del tratto umano mai smentito sotto il suo sorriso sornione e i suoi occhi ammiccanti.

Si sentiva uomo tra la gente, conoscitore come pochi dell’animo umano, e dei luoghi della sua storia e del suo lavoro. Di queste terre poteva parlare come delle sue tasche. Ricordo le tante volte in cui ha voluto mostrarmi e farmi gustare le proprietà delle varie sorgenti nocerine, o mostrarmi angoli montani di questo paesaggio che lui non finiva mai di esplorare andando a funghi o salendo fino in cima al monte per inseguire i giochi del sole, convinto di aver persino individuato il punto da cui Dante avrebbe guardato il nostro paesaggio per ritrarlo “intra Tupino e l’acqua che discende/ del colle eletto dal beato Ubaldo”. A ricordare questi versi, risento la sua voce, che sapeva dare agli incontri il tocco delle sue rimembranze poetiche, spesso attinte alla letteratura francese, di cui era cultore.

Quando ha saputo che ero stato eletto vescovo di Foligno, non ha saputo trattenersi dal proporsi come “cicerone”. Mi ha letteralmente detto: se vuole capire Foligno, gliela posso spiegare io. In questa Città aveva lasciato l’animo. Ringrazio monsignor Sigismondi che oggi prega con noi, e che più volte ha consolato i suoi ultimi tempi di vita, concedendosi ad espressioni di amicizia che don Germano era così contento di poter ricevere e di poter ricambiare.

Tutto questo ora rivive nell’Eucaristia, che unisce il cielo e la terra. «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno».

La promessa di Gesù, caro don Germano, rende la tua bara, pur inevitabilmente destinata alla nuda terra, uno scrigno di futuro e di vita. È quello che hai annunciato in tutta la tua vita sacerdotale, e che ora costituisce il tesoro che porti all’incontro con Dio.

Io ti ringrazio, a nome di tutta la nostra Chiesa di Assisi, Nocera e Gualdo, per il ministero che hai svolto. Il tuo popolo è qui a dartene testimonianza. Hai saputo camminare con i tempi e con la gente. Anche in questi ultimi anni che vedono le nostre comunità sempre più toccate da grandi processi culturali e sociali che mettono a dura prova la fede, hai saputo aprirti al nuovo, superando sterili nostalgie e accogliendo il progetto diocesano di rinnovamento pastorale. Un lavoro appena iniziato, e che ora va completato. Dal cielo, dove ti consegniamo alla misericordia del Padre, comincia una nuova fase del tuo ministero, quello dell’intercessione che si fa forte di tutte le voci della Gerusalemme celeste. Maria assunta in cielo, che ti ha chiamato nella sua festa, ti accolga con la sua tenerezza materna.  Vivi in Dio.