Omelia di mons. Sorrentino funerale di Dom Carini

05-01-2018

Rm 6, 3-9; Mt 5, 1-12

La morte è l’ultimo nemico. Quello che riassume tutti i nemici della nostra gioia. A partire da quello più radicale, che abita in noi stessi, e al quale facciamo tutti incredibilmente spazio: il nostro peccato.

Siamo qui, all’altare del Signore, a vivere eucaristicamente un momento di preghiera, condivisione e riflessione, intorno alla figura, ormai irrigidita dalla morte, di un uomo come dom Cipriano, di cui io e tanti di voi – a partire dalla sua comunità benedettina ­­– abbiamo conosciuto la mitezza e la bontà.

Amante com’era della lectio divina, che tante volte ha condotto anche per le nostre comunità assisane, da questa bara, ma più ancora dal misterioso luogo di incontro con Dio che speriamo lo abbia già accolto tra le sue braccia, egli ci chiede di non fermarci al suo ricordo e alla sua persona, bensì di lasciare spazio alla Parola di Dio, perché sia essa ad accompagnare il suo trapasso nell’aldilà e a dare senso compiuto alla nostra commozione.

E la Parola giunge luminosa, a ricordarci che un cristiano, pur rimanendo, come tutti gli esseri umani, indifeso e timoroso di fronte alla morte, ha una ragione profonda per non temerne gli artigli.

Il battesimo ci ha infatti immersi nella morte di Cristo. In questa morte è stato sepolto quanto di vecchio c’è nella nostra vita, perché la nostra possa essere una vita nuova, la vita in Cristo e con Cristo.

La vita cristiana è la grande vittoria sulla morte. Ne prendiamo coscienza in forza del battesimo. Ma un religioso, un benedettino, rinnova questa coscienza con una scelta radicale anche nella sua consacrazione. Si diventa monaci proprio perché ci si sente chiamati ad anticipare in questa vita la radicale conformità a Cristo che solo in Paradiso può avere la sua pienezza. Un monaco è uno che – stando alla regola di S. Benedetto ­– «non antepone nulla a Cristo». Cristo è diventato veramente il suo tutto, al punto che tutta la sua vita è innestata in lui e prende sapore da lui.

Prende il sapore delle beatitudini. La parola di Dio ce le ha or ora ricordate. Fondamentale la prima: «Beati i poveri in spirito». La povertà riconosciuta e amata come espressione di tutta la propria persona, che riconosce il suo nulla e, come Maria, si abbandona alla volontà di Dio, affidandosi alla sua tenerezza e alla sua misericordia. Prima di una dimensione economica e sociale, la povertà evangelica ha questa dimensione esistenziale profonda. È la condizione per poter entrare nel regno di Dio.

Ed è proprio questa condizione radicale di povertà che si esprime poi nelle altre beatitudini. Ne ricordo soltanto due che, mi sembra, più delle altre, sono state un programma di vita di dom Cipriano: beati i miti, beati gli operatori di pace.

Noi siamo qui ad affidare alla divina misericordia dom Cipriano, perché queste beatitudini che egli ha cercato di vivere nella sua vita terrena, portino oggi il loro frutto nell’eternità:

«Beati i miti perché possederanno la terra». Possa tu, caro dom Cipriano, possedere il cielo, anzi, esserne posseduto, immerso nella beatitudine eterna.

«Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio». Possa tu incontrarti con il volto di Dio Padre, Abbà, sentendone la carezza, abbracciato da Gesù e dal Santo Spirito, per una gioia senza fine.

 La tua nuova vita nell’eternità non ci toglie tuttavia il dolore del distacco, avendo noi goduto della tua amicizia.

A diverso titolo sentiamo questa fatica. La sentono certamente quanti ti sono imparentati anche nella carne. La sentono quanti ti hanno avuto confratello nelle diverse comunità monastiche in cui hai svolto il tuo servizio. Essi testimoniano, con la loro presenza all’altare del Signore, che vi siete voluti bene, nonostante le diversità di vedute e di sensibilità che sempre emergono in una famiglia, e hanno bisogno di essere affrontate con spirito di pazienza e misericordia. La sentono i fedeli di questa comunità nella quale hai svolto il tuo servizio di parroco.

La nostra condivisione si fa inevitabilmente memoria. È un modo per attutire il distacco, per lodare il Signore, e per trarre dalla testimonianza di dom Cipriano quanto ci possa aiutare a vivere sempre meglio il vangelo.

Molto si potrebbe dire, se lasciassimo libero sfogo alle tante confidenze delle persone che hanno avuto un rapporto con lui.

Andando l’altro giorno alla camera mortuaria, mi ha impressionato come alcune figlie spirituali versassero calde lacrime, facendomi sentire quanta paternità avessero sperimentato nel volto   affabile di dom Cipriano. Per un prete, alla fine della sua vita, non c’è consolazione più grande del sapere che è stato un padre ed è stato riconosciuto e amato con un padre.

La sua bontà affiorava dal volto. Pacato, semplice, dom Cipriano aveva un cuore affettuoso, un cuore che si apriva dovunque ci fosse una sofferenza. Talvolta questo poteva essere per lui – o anche per gli altri – un problema. Sembrava eccessivo, quasi imprudente, nella sua generosità. Ma sono sicuro che quella bontà portasse il segno dello Spirito di Dio. E tante persone hanno potuto sperimentarla. Dom Cipriano è stato per loro la carezza di Dio.

Come pastore di questa Chiesa, voglio ricordare l’amore con cui si dedicò alla parrocchia. Gliela affidai fin dai primi anni del mio ministero, che coincidevano con i suoi primi anni ad Assisi, dove era giunto partendo dalla sua precedente comunità monastica di Parma.

Il fatto di essere venuto con un’esperienza di abate, non gli impedì di venirmi incontro nell’assumere l’impegno parrocchiale, al quale si affacciava per la prima volta.

Ed ha operato lodevolmente. Ricordo la visita pastorale che feci alla parrocchia di San Pietro nel febbraio 2011.  Osservavo e lodavo il clima di comunione che dom Cipriano aveva saputo stabilire, l’affetto che i fedeli portavano a lui e alla comunità benedettina, come anche la sua sensibilità per la partecipazione laicale. Era felice che io chiedessi in particolare alla parrocchia di distinguersi per l’amore alla liturgia in consonanza con la tradizione benedettina.

Si comprende perché, quando ha lasciato il ministero di parroco, abbia continuato ad avere a cuore con decisione il futuro della parrocchia, chiedendo ai suoi superiori e confratelli – che lo hanno rassicurato sull’impegno che avrebbero posto in tal senso nella misura delle effettive possibilità – di far di tutto per continuare a svolgere in Assisi la loro missione.

Su altri aspetti mi appoggio a quanto mi hanno scritto il priore della Comunità di Bose, fr. Luciano Manicardi, e il suo fondatore fr. Enzo Bianchi.

Essi ricordano in particolare che già negli anni Settanta dom Cipriano organizzava i convegni monastici intercongregazionali. Era il segno di quanto credesse nella vita monastica, nelle sue radici, nel suo consolidamento attraverso la fraternità degli scambi, nella sua possibilità di futuro e di rinnovamento.

Nel 1994 fu nominato responsabile della Commissione italiana del Dialogo Interreligioso Monastico (DIM). La sua venuta nella nostra Città gli offrì l’ambiente privilegiato per continuare in questo interesse che porta ormai il nome di “spirito di Assisi”.

Gli amici di Bose si dicono in particolare colpiti dalla sua vita di fede e di preghiera, dalla profondità della sua ricerca spirituale, senza nulla far apparire, e dal suo servizio instancabile, paziente e nascosto, ai fratelli della sua comunità e ai parrocchiani. Ha avuto una fiducia assoluta nel Signore come “padrone della storia” (come lui sovente lo definiva), “nel bene che Dio vuole, nel suo guidarci sulle sue vie aperte da Cristo vero re delle nostre storie e dei nostri cuori” (sono tutte parole che insistentemente ripeteva). Uomo radioso e ospitale verso tutti, anche nei momenti difficili, con una grande capacità di perseveranza, di dialogo, di ricominciare mettendo al centro Gesù e il vangelo.

Fin qui la preziosa testimonianza. Credo la possiamo tutti far nostra.

Caro dom Cipriano, i miei due ultimi incontri con te sono avvenuti l’uno, qui, nella tua comunità, ed ho potuto sperimentare nelle tue parole la tua premura pastorale; l’altro, all’ospedale, dove, nel silenzio che ormai ti veniva imposto dalla malattia, mi hai mostrato con lo sguardo ormai quasi spento lo spirito di preghiera con il quale ti stavi preparando all’incontro con “sorella morte”. Ora sei direttamente sotto lo sguardo e la luce di Dio. A lui ti affidiamo, sapendo che non ti farà mancare la sua misericordia. L’Eucaristia è ponte tra cielo e terra. È finestra che si apre nel cielo dove sei, perché anche noi possiamo un po’ fissare con te lo sguardo sul volto del Padre.  Ti assicuriamo la nostra preghiera, sapendo che anche tu, come facevi su questa terra, continuerai a pregare per noi.