Mons. Domenico Sorrentino
OMELIA PER LA MESSA
IN MORTE DI DON CESARE PROVENZI 30.9.24
Cari fratelli e sorelle,
la morte di don Cesare non è stata una sorpresa. Eppure stentiamo a crederci. La sua personalità si è tanto imposta al nostro sguardo che pare impossibile non imbatterci più con il suo piglio deciso e generoso, di uomo al quale ci si poteva rivolgere, sapendo che i problemi, in un modo o nell’altro, li avrebbe risolti. Non a caso, sia il mio caro predecessore mons. Goretti che io gli abbiamo affidato compiti importanti, oltre quelli parrocchiali svolti successivamente a Torchiagina e San Rufino. Mons. Goretti lo ha avuto segretario personale, godendone il servizio in vita e la fedeltà in morte, io gli ho dato incarichi di tutto rilievo come quello di Priore del Capitolo, Vicario zonale, Vicario per l’economia, Presidente della Fondazione Assisi-Caritas e Presidente della Fondazione del Santuario della Spogliazione. Sempre ne ho ammirato la competenza e la dedizione.
Oggi, per lui che era l’immagine stessa dell’attivismo, sembra incredibile vederlo nell’immobilità di una bara. Solo la Parola di Dio può dare luce anche a questa nostra incredulità. La cerchiamo nei tre brani biblici appena proclamati, che a lui erano particolarmente cari.
Il primo, è quello della grande visione di Isaia, il sogno di Dio per l’umanità. Da figli, quali ci considera e siamo, Dio ci vuole felici. Non si arrende alla condizione di sofferenza e al destino di morte in cui ci ha precipitati il peccato. Come il padre della parabola del figliuol prodigo, continua a sognare, nonostante tutto, che il peccato ceda, in ciascuno di noi, all’esplosione di vita della Pasqua. È nella luce di Gesù risorto che si realizzerà lo scenario che il profeta dipinge: la morte sarà eliminata per sempre, le lacrime saranno asciugate, il disonore sarà superato sulla faccia del suo popolo, e si dirà: “Ecco il nostro Dio, in lui abbiamo sperato… rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza”.
Con la morte dobbiamo fare inevitabilmente i conti. La cultura odierna cerca di minimizzarla e di nasconderla. Ma è opera vana. Un prete è comunque costretto a vederla passare spesso sotto i suoi occhi. Quante volte don Cesare ha dovuto accompagnare morti nelle sue parrocchie di Torchiagina prima, e di San Rufino, Viole e la “montagna”, dopo. Ormai il numero dei morti è cresciuto in modo impressionante rispetto ai pochi bimbi che nascono. E questo segna la nostra psicologia, anche quella di un prete. Don Cesare poi nascondeva un dolore che doveva aver lasciato tracce profonde sulla sua anima, quello per la morte prematura e tragica del papà. Sono sicuro che ha cercato di lenire questa ferita mai totalmente rimarginata proprio col mostrarsi teneramente vicino a quanti, perdendo un loro caro, vivevano la stessa esperienza. Lo ha sostenuto poi l’affetto dei suoi cari, il fratello Giuseppe, la cognata Marisa, la nipote Alice, che lo hanno sempre accompagnato, specialmente nel calvario dei giorni sempre più ricorrenti di ospedale a Bergamo, dove si è fatto l’impossibile per salvarlo.
Ha sperimentato quello che il Salmo, appena eseguito con una melodia toccante, descrive con crudo realismo. A detta di don Alessandro – che gli è stato tanto vicino, aiutandolo, insieme con gli altri confratelli, nell’attività pastorale e accudendolo nella lunga fase della malattia fino all’ultimo respiro–, questo salmo don Cesare lo sentiva particolarmente suo. È il grido di un uomo che sente intorno a sé aria ostile da cui difendersi, ma trova riposo nel Signore e si abbandona alla sua fedeltà. La liturgia lo applica a Cristo stesso nella sua passione. “Nelle tue mani consegno il mio spirito”: sono le parole che Gesù dice al Padre sulla croce. Ci auguriamo che questa fedeltà di Dio si sia già realizzata anche per don Cesare.
Ringrazio il Signore per i suoi talenti. La sua dipartita ci priva di un sacerdote non facilmente sostituibile. In effetti, tempra di manager, anche nella pastorale, ha realizzato tante cose. Ha curato questa Cattedrale, sede per eccellenza del ministero del Vescovo, più che se fosse stata la sua casa. Oggi dal cielo è sicuramente contento di vederla gremita. A lui stava molto a cuore metterne in evidenza il ruolo di chiesa centrale, posta simbolicamente tra le tante chiese come luogo dell’unità, intorno al vescovo. Da priore del Capitolo, si è distinto per lo slancio dato al Museo diocesano. Con la costituzione dell’unità pastorale tra San Rufino, Viole e la montagna, ha saputo ben coordinare le cose, facendosi amare e apprezzare, e diventando così un punto di riferimento non solo della comunità ecclesiale, ma della stessa Città. Per molti anni è stato vicario foraneo di Assisi, senza che nessun altro prete del vicariato si sentisse di succedergli in questo ruolo. Ha posto tutto lo zelo possibile, perché la comunità parrocchiale di San Rufino e le altre parrocchie successivamente a lui affidate, pur in una situazione di sempre maggiore fatica della fede, della pratica religiosa e della tenuta della famiglia, non mancassero della cura necessaria. La gente di Assisi gliene dà atto. Gli ha voluto bene. Lo ha sentito di casa. Incontrarlo, dirgli un “don Cè” come si dice tra amici, fargli un sorriso e riceverlo, scambiare una parola di amicizia e quasi di familiarità, era tutt’uno. Lui, d’altra parte, se lo aspettava, e in qualche modo, lo pretendeva. Aveva forte coscienza delle sue capacità e non esitava a far valere la sua autorità. Era di quegli uomini rispetto ai quali o stai da una parte o stai dall’altra. La posizione di mezzo non era possibile. Ma dietro la scorza autoritaria, c’era una tenerezza di fondo che si manifestava verso tutti, ma soprattutto verso i poveri. A loro favore si è speso nel CVS di Assisi e nel Santuario della Spogliazione, dove ha realizzato la mensa “Carlo Acutis”. Come Presidente della Fondazione Assisi-Caritas avrebbe voluto realizzare ad ogni costo un progetto di allargamento della nostra Casa Papa Francesco a servizio dei senza fissa dimora. Non nego che, pur fidandomi delle sue capacità, gli ho fatto ripetutamente una certa resistenza, sembrandomi un’impresa ardua e rischiosa per il budget consistente. Ma lui, con il piglio dell’imprenditore nato, era capace di tranquillizzarmi. Spero che dal paradiso continui un po’ il suo ufficio di vicario per l’economia trovando le risorse necessarie alla Fondazione Caritas di cui è stato finora responsabile.
Credo che il suo cammino di fede e il peso crescente della sua ultima malattia, pur facendolo altalenare tra picchi di speranza e tonfi di scoraggiamento, gli abbiano permesso di entrare in una situazione di lenta accettazione interiore, certo molto provata, specie nelle ultime ore, dall’incalzare irresistibile della malattia. Ha dovuto farsi una ragione, sul terreno del vissuto, di quanto il Vangelo ci ha appena annunciato: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”. In uno dei miei ultimi incontri con lui mi ha confidato: “offro la mia sofferenza per la Diocesi”. Gesù promette salvezza a quelli che accolgono la sua croce e si pongono fino in fondo alla sua sequela. Vogliamo sperare che la croce pesante che ha dovuto portare gli abbia già ottenuto la gioia della vita che non ha fine.