Omelia del Vescovo monsignor Domenico Sorrentino per i funerali di Don Giovanni Raia

26-12-2022

Non so se p. Giovanni sentisse che la sua chiamata al cielo sarebbe avvenuta in una grande solennità, magari proprio a Natale, come è avvenuto. Certo è che nel suo Testamento, datato 18 luglio 2012, raccomandava che la messa del suo funerale rimanesse quella del giorno. Ed anzi, che fosse tutta all’insegna della gioia e non del lutto, evitando discorsi di commemorazione, che dunque non faremo, lasciando così alla sola liturgia di parlare col suo linguaggio essenziale e vero. Chiedeva poi che i canti fossero tutti allegri ma che tra essi tuttavia non mancasse il “dies irae”, che in genere viene percepito come un canto lugubre, e per questo sempre meno eseguito, ma che egli sentiva come «il canto bellissimo dell’uomo libero, della parresia ottenuta nel sangue di Cristo, che ricorda al suo Creatore l’impegno che si è assunto con l’uomo: “Ricordati che per me ti sei fatto uomo: non permettere che tutto vada sprecato”!» E chiudeva poi i suoi desideri liturgici con l’improbabile auspicio che intorno al suo corpo, come omaggio ultimo a sorella morte, si potesse danzare!

Giovanni – lo sappiamo bene noi che lo abbiamo conosciuto da vicino – era una persona originale, capace di stupire. Rimane così anche nel Testamento. All’incontro con sorella morte si era preparato da tempo. Il suo animo francescano lo aveva sintonizzato fin da giovane con il Cantico di frate sole, facendogli sentire anche quell’ultima strofa drammatica, quella della morte, con la consapevole letizia di chi crede nella vita e nella risurrezione. Lo vedevo così quando ci recavamo in pellegrinaggio in Terra Santa, quasi ogni anno, e meditavamo, insieme con i nostri gruppi, nella Basilica del Santo Sepolcro, sul senso della morte e la prospettiva della vita che non muore.

A questo incontro supremo si era preparato anche con la sua esperienza di sofferente. Sapeva da molto di essere a rischio, e sperava in questa ultima chance della medicina più raffinata, ma avendo piena coscienza del pericolo che correva. A chi gli chiedeva della sua salute era solito rispondere con qualche battuta umoristica, tinta però sempre di abbandono alla volontà di Dio, sentendosi preparato a tutto, desideroso di vivere ancora su questa terra, ma disposto a spiccare il volo verso il cielo. Dopo tre lunghi mesi in cui i medici hanno fatto di tutto, e anche la nostra preghiera si è elevata intensamente, la volontà di Dio si è manifestata.  I nostri desideri e auspici avrebbero quasi voluto contrastarla. Ci siamo affidati all’intercessione del venerabile Pennacchi perché, se possibile, ottenesse la grazia. Accettiamo la volontà di Dio, che è sempre il disegno di un Dio che è Padre, che sa valutare il nostro vero bene, e si serve anche delle nostre traversie e sofferenze per prepararci una dimora nel cielo. La morte alla vigilia di Natale, dopo tanta purificazione, con i sacramenti che gli sono stati impartiti, l’incontro di comunione con me in due occasioni di visita   e il ricordo, pur a distanza, di tanti confratelli, l’amore premuroso della sorella Antonietta, dei familiari e degli amici, lo hanno accompagnato a vivere il Natale per quello che esso significa, nascita del figlio di Dio tra noi, perché la nostra morte possa essere nascita al cielo.

E’ quello che la liturgia di questa festa di Santo Stefano ci dice, pur nel paradosso del repentino passaggio dal bianco del Natale al rosso del martirio. E’ il primo martire. Vive quello che Gesù aveva preannunciato: la vita cristiana è martirio, innanzitutto perché, come dice la parola, dev’essere una testimonianza viva del Vangelo ed essa non sempre è facile, sia perché questa testimonianza può essere chiesta fino al sangue.

Nelle parole di Stefano riportate dagli Atti degli Apostoli nel giudizio che il Sinedrio gli riserva, c’è tutto il racconto della storia della salvezza, culminante in Gesù.   Stefano la racconta, col desiderio di illuminare i suoi stessi persecutori. Quante volte p. Giovanni, nel suo impegno di docente di teologia e animatore della catechesi, tra Assisi e Foligno, ha ripreso questo racconto biblico, illustrandolo poi in particolare nei viaggi in Terra Santa. La Chiesa è figlia di questo racconto. Anzi è essa stessa un racconto vivente, nella misura in cui porta impresso nel suo culto e nella sua vita i tratti di quella storia in cui Dio stesso si è messo in gioco per fare alleanza con i suoi figli, strapparli alle catene di Satana, e renderli in Gesù liberi e gioiosi.

Giovanni si era consegnato a questo racconto. Ne sentiva la vitalità, e pertanto sentiva anche l’urgenza di una formazione biblica e teologica per i cristiani di oggi. È stata la sua principale “diaconia”. Ne aveva appreso l’importanza  nella sua vita di frate al Sacro Convento, insegnando all’ITA, l’aveva poi sperimentata nel suo ministero parrocchiale a Santa Margherita, Rivotorto e Cannara, e infine se ne era fatto responsabile negli anni di servizio diocesano come direttore dell’Ufficio Catechistico.  Voleva per tutti i battezzati, ma specialmente per gli operatori pastorali, una formazione robusta, fatta in modo da nutrire l’intelligenza per riscaldare il cuore. Si amareggiava, quando si accorgeva che si tendesse ad abbassare il livello di impegno nelle Scuole di Bibbia e Vita Cristiana, che fino all’ultimo ha diretto, o nella Scuola interdiocesana di formazione teologica, che univa già da tempo in un cammino comune la diocesi di Assisi – Nocera – Gualdo e quella di Foligno. Mi è capitato di dare uno sguardo alla programmazione che da anni aveva predisposto, insieme con don Giovanni Zampa, per questo centro teologico, e ho potuto apprezzare con quanta intelligenza e creatività avesse scelto, anno per anno, i temi salienti e i relatori adeguati per una formazione capace di intercettare le domande sempre più difficili del nostro tempo. P. Giovanni era così. Gli piaceva la serietà, come gli piacevano la verità e la sincerità. Di carattere diretto e poco diplomatico, comunque incapace di portare astio. La risata schietta e forte con cui lo si percepiva presente nei nostri ambienti, diceva di un animo che era rimasto alquanto bambino e di una personalità capace di smorzare nel realismo della vita, ma soprattutto nel realismo della carità, le delusioni e le sofferenze più cocenti.   Anche quando dava l’impressione di prendere le distanze, questo non era mai uno scavare fossati. Il racconto della storia della salvezza si faceva in lui vita e testimonianza.

Al tramonto gli è stato chiesto anche una grande sofferenza fisica. Il martirio della testimonianza si è declinato in un lungo periodo di interventi chirurgici invasivi, con esiti certamente dolorosi, con una speranza sempre appesa a un filo, alla fine naufragata nel silenzio della morte.

Ora resta il p. Giovanni del cielo, che la nostra fiducia orante già spera nell’abbraccio misericordioso del Padre.

Le parole del suo Testamento sono una testimonianza che val la pena di leggere.  E’ lui, in qualche modo, ad essersi fatta la sua omelia per questo momento.

Esse contengono il suo grazie a quanti gli anni voluto bene e a quanti hanno potuto fargli del male, chiedendo a sua volta perdono.

Ma prima ancora sono un atto di fede. «Leggo – egli scrive – il mistero della morte nel mistero della vita; un mistero rivelato dal mio Signore e Padre, nel suo Figlio Gesù Cristo vivente in eterno, e nella potenza di amore che è lo Spirito Santo. In Dio, uno e trino, elevo il mio canto, nella consapevolezza di riuscire solo a balbettare parole troppo umane a Colui che ha voluto farmi partecipe della sua natura divina. Nella sua misericordia, unico mio merito, il mio canto fa vibrare l’universo e si unisce alla lode della Madre Chiesa […]. Madre che ho sempre amato di vero cuore, con profondo affetto. Alla Madre Chiesa devo ciò che sono […] Chiedo a Cristo, capo del corpo, di renderla sempre più santa. […]. Sono contento di avere detto di sì al mio Signore. Prima nella vita religiosa – e ringrazio tutti i miei confratelli conventuali per quanto mi hanno donato – e poi nel presbiterio diocesano […].

Spesso sono stato sopraffatto dalla gratitudine al Padre: quanto mi ha amato! Inebriato di tale gratitudine, sono convinto che la mia miseria non è superiore alla sua misericordia. Ed è questa certezza a dirmi che riposerò sul petto del Maestro. A lui chiedo una morte santa».

Caro Giovanni, nelle parole che sei riuscito appena a sussurrare con il soffio di voce che ti rimaneva, quando ti ho dato l’ultima benedizione c’erano sicuramente questi tuoi sentimenti espressi dieci anni prima nel tuo testamento. Riposa sul petto del Maestro, di cui hai conosciuto e annunciato la misericordia. La tua voce potente, come nelle nostre processioni del venerdì santo nelle vie della Città, si unisca ora alla voce degli angeli. E fa sentire loro anche la tua risata irripetibile, così schietta, sonora e rallegrante. Rallegrerà certamente anche gli angeli e i santi del cielo.