GIORNATA NAZIONALE IN MEMORIA DELLE VITTIME DEL COVID 19, LE TESTIMONIANZE DEI MEDICI ASSISANI

A diffonderle l’Ufficio diocesano per la Pastorale della Salute: “Grande fatica emotiva, ma anche speranza alimentata dalla fede”

ASSISI – “Non siamo mai pronti alla morte eppure proprio Francesco, il Santo della nostra terra ci insegna a chiamarla sorella! Ma i morti di questa pandemia sono ferite che sanguinano e gridano ancora! Gridano la rabbia, l’impotenza di non essere riusciti a curare e guarire, gridano la solitudine obbligata, la paura, il mancato addio”. È questa la testimonianza di un medico del Pronto Soccorso dell’Ospedale di Assisi, Giulia Olivi, che a due anni di distanza dal diffondersi della pandemia sente ancora forte l’impatto emotivo  e il senso del limite che come professionista della salute ha sperimentato.
Anche la diocesi di Assisi – Nocera Umbra – Gualdo Tadino ricorda le vittime della pandemia, con le due testimonianze di sanitari, pubblicate sul sito www.diocesiassisi.it, che hanno vissuto in prima linea i terribili giorni pandemici. A raccoglierle è Marina Menna, direttrice dell’Ufficio diocesano per la Pastorale della Salute a pochi giorni dalla Giornata nazionale in memoria delle vittime del Covid 19, fissata il 18 marzo di ogni anno per conservare e rinnovare la memoria di tutte le persone decedute a causa della pandemia. “Nonostante dagli scritti trapeli la fatica emotiva dell’agire in un contesto difficile e pieno di incertezze, la speranza risulta sempre alimentata dalla fede ad accogliere il tenero e misericordioso abbraccio di Dio che dona conforto e sicurezza”, spiega la dottoressa Menna. “Il dolore che tutti abbiamo provato – aggiunge Menna – deve essere per noi sempre un monito e costituire uno stimolo costante all’impegno nella ricerca scientifica, nella clinica, nell’assistenza e nella prossimità solidale alla persona malata. Il 18 marzo, Giornata nazionale in memoria delle vittime del COVID-19, costituisce l’occasione per conservare e rinnovare la memoria delle vittime, pregare per loro e perché tutti i familiari trovino la Pace del cuore”. Durante le celebrazioni eucaristiche della Giornata oltre che per le vittime del Covid, su invito della Conferenza episcopale italiana, si pregherà anche per le vittime causate dalla guerra.

La prima testimonianza è di Anna Maria Cimino, medico cardiologo del reparto di medicina dell’ospedale di Assisi: “Una notte, purtroppo, arrivò l’ultima ora per ben tre pazienti. Si può immaginare la costernazione di fronte all’accaduto. Ecco, arrivo al dunque, tre decessi tutti insieme in una stessa notte: con il coronavirus siamo arrivati a 27.000 (in Italia)! Non in un solo posto, certo, ma in molti ospedali ne sono morti a decine tutti insieme e se è traumatizzante veder morire un essere umano si pensi vederne morire a centinaia nell’arco di pochi mesi nello stesso ospedale!”, uno dei passaggi più toccanti. La seconda testimonianza è di suor Giulia Lucci, infermiera delle suore francescane Missionarie ‘del Giglio’ di Assisi: “Il tempo della pandemia Covid, che ha flagellato certezze, progetti, vite umane è stato difficilissimo… La malattia è sempre una strada in salita e spesso, di fronte a sofferenze estreme, come quelle generate dal Covid, mi sono anche chiesta perché Dio avesse permesso tutto questo…. La forza della fede mi ha aiutata, con umiltà mi sono affidata ed ho trovato le risposte. Come dice Papa Francesco ‘Servire la vita umana è servire Dio e ogni vita, da quella nel grembo della madre a quella anziana, sofferente e malata, a quella scomoda e persino ripugnante, va accolta, amata e aiutata’”.

 

Di seguito le due testimonianze integrali

Tutto è compiuto (Anna Maria Cimino – Medico Cardiologo – Reparto Medicina Ospedale di Assisi ) 

“Tra il 1918 e il 1920 la “Spagnola” o la “Grande Influenza”, come venne anche chiamata, uccise 50 milioni di persone in tutto il mondo in un periodo in cui la popolazione mondiale contava circa 2 miliardi e mezzo di persone, solo in Italia ne perirono 600.000. Nel rileggere la storia di questa pandemia di 100 anni fa colgo molteplici somiglianze come il dubbio che il focolaio primitivo fosse in Cina (fu chiamata Spagnola perché la Spagna era l’unica nazione a non essere coinvolta nella prima guerra mondiale e mentre negli altri stati vigeva la censura di guerra la Spagna, appunto, aveva più libertà di stampa, tuttavia per alcuni studiosi si sviluppò nel Kansas e per altri nella Cina settentrionale dove già dal novembre 1917 si era presentata una malattia respiratoria molto grave). Comunque gli aspetti incredibili sono sia la descrizione dei sintomi, sovrapponibili alla Covid 19, che l’eziopatogenesi della morte attribuita ad una tempesta di citochine, cioè all’impazzimento del sistema immunitario, come, appunto nella Covid 19. Inoltre otto segmenti genetici del virus della spagnola, che sembra la fotocopia di quello responsabile della Covid 19, sarebbero derivati da un virus aviario che compiendo un salto di specie si sarebbe adattato all’uomo. Nota bene: nel 2005 si riuscì a ricostruire il virus della Spagnola sintetizzandolo de novo in laboratorio.

Quando ho cominciato a lavorare presso l’ospedale, di cui sono dipendente da ormai 33 anni, era di nuova istituzione il Pronto Soccorso, praticamente fino al 1987, e non solo nel mio ospedale, quando arrivava un’urgenza a turno scendeva il medico di reparto, mentre successivamente la struttura fu dotata di personale completamente autonomo. Contemporaneamente era stato incrementato il numero dei sanitari nei vari reparti e quindi ci trovammo ad entrare in parecchi.  Molti di noi erano coetanei, quasi tutti del territorio, per cui ci si conosceva, in qualche caso, anche piuttosto bene.  Una notte, purtroppo,  arrivò l’ultima ora per ben tre pazienti. Si può immaginare la costernazione di fronte all’accaduto. Ecco, arrivo al dunque, tre decessi tutti insieme in una stessa notte: con il coronavirus siamo arrivati a 27.000 (in Italia)! Non in un solo posto, certo, ma in molti ospedali ne sono morti a decine tutti insieme e se è traumatizzante veder morire un essere umano si pensi vederne morire a centinaia nell’arco di pochi mesi nello stesso ospedale! Se anche la morte viene considerata come la cessazione dell’attività cardiaca, respiratoria e neuronale c’è qualcosa ogni volta che fa pensare, e non parlo solo di me, che lo “spirito” vitale all’improvviso lasci il corpo e fluttui leggero nell’aere. Ma avere la possibilità di credere ciò è un privilegio che hanno avuto medici come me che hanno potuto assistere a morti, sia pure premature, ma compatibili con determinati quadri patologici e ben distribuite sia nel tempo che nello spazio, per intenderci il privilegio di assistere al bacio di Dio sulle labbra di Mosè.  Cosa vuol dire, che impatto può avere per la psiche di un operatore sanitario sentire che all’improvviso un fischio continuo ha sostituito quello pulsante dei monitor dai quali si apprendeva che il paziente era ancora in vita? Oltretutto tra casco e intubazione è un po’ difficile capire come stanno realmente le cose mentre il monitor registra la pressione, la saturazione di ossigeno, il battito cardiaco, le pressioni polmonari ed intracardiache etc. E mentre va in allarme un monitor comincia a fischiare quello vicino e poi quello di fronte e ancora quello in fondo alla stanza etc. etc. Che cosa rappresenta per chi ha curato per intere settimane un “corpo” sapendo che lì c’era un essere umano che magari non aveva avuto neanche il tempo di salutare i suoi cari, un essere umano che non aveva avuto neanche il tempo di lanciare uno sguardo alla sua casa, alle sue cose, a quel piccolo soprammobile comprato durante l’ultima vacanza con il proprio coniuge, alla bomboniera del matrimonio del figlio, per chi ha accarezzato la mano ferma sul lenzuolo, per chi ha parlato col paziente in coma perché pur sapendo di non essere udito ha sentito la necessità di mormorare andrà tutto bene, che cosa rappresenta quel trillo acuto che avverte beffardo che tutto è finito che “il tempo è compiuto”! Ho rivisto l’altro giorno il film Gesù di Nazareth di Zeffirelli, le immagini commoventi di Gesù che muore in croce, che grida Elì Elì, lemà sabactàni…,che rende l’anima al Padre. Poi le immagini di quando lo tolgono dalla croce, l’atonia del corpo, lo sguardo vitreo, la deposizione a terra….eppure Maria lo prende in braccio e lo piange e quella immagine ha ispirato per secoli i più grandi artisti. Ecco “il tempo è compiuto” il paziente “non è più con noi” si toglie dalla croce, si sveste, si sfila il catetere vescicale, si sfilano i chiodi, si sfila il tubo endotracheale, si toglie la corona di spine, si sfilano i cateteri venosi, si accarezza la ferita sul costato, si pulisce, si copre il corpo con unguento di Nardo, si copre col lenzuolo, viene preso in braccio, viene messo in un sepolcro, viene portato in obitorio, viene fatta rotolare la pietra del sepolcro, viene messo in una bara. Qualcuno parlerà con il personale sanitario che dirà perché cercate qui colui che non c’è. Qualcuno piangerà e si strapperà le vesti, qualcuno si toglierà con rabbia la mascherina chirurgica. Qualcuno si recherà al sepolcro. Ai familiari verrà detto non potete toccarlo, noli me tangere, non potete vederlo, ma noi sappiamo che lo rivedranno con una veste bianca splendente alla destra del Padre.”

 

 

Accanto al malato (Sr Giulia Lucci Infermiera Suore Francescane del Giglio-Assisi) 

“Spesso, nell’arco della mia vita religiosa, mi sono chiesta cosa significhi “spendersi” per un malato , farsi prossimi….. Sin dalla prima giovinezza ho sentito dentro di me forte il richiamo ed il desiderio di accompagnare e sostenere le persone malate, in particolare i più piccoli di età. Ho vissuto momenti di tristezza e dolore quando mi sono trovata accanto ai bambini malati di tubercolosi, bambini estremamente fragili, ma che interiormente possedevano una forza di lottare incredibile. Mi hanno aiutato a comprendere la ricchezza del dono totale di se stessi. Non mi sono mai tirata indietro ed ho provato veramente a donare la mia vita con profonda dedizione ai tanti “fratelli” che Dio ogni giorno metteva sulla mia strada. Ho compiuto i miei studi da infermiera e poi mi sono letteralmente “buttata” a capofitto nella missione di accompagnare i malati come una sorella maggiore o come una madre. Ogni giorno, sostenuta dall’immenso amore di Dio , ho provato a donare  conforto , sollievo , speranza, senza mai guardare l’orologio, senza mai chiedere nulla in cambio, con l’unica certezza di poter alleviare un po’ di sofferenza. A distanza di tanti anni, spesi anche accanto a persone disabili, sento di aver ricevuto tanto da ogni persona sofferente che ho incontrato lungo il mio cammino e sono convinta che è nel dono totale di se stessi che si porta a compimento il disegno di Dio su di noi. Certo, i momenti bui non sono mancati e continuano a non mancare. Il tempo della pandemia Covid, che ha flagellato certezze, progetti, vite umane è stato difficilissimo… La malattia è sempre una strada in salita e spesso, di fronte a sofferenze estreme, come quelle  generate dal Covid, mi sono anche chiesta perché Dio avesse permesso tutto questo…. La forza della fede mi ha aiutata, con umiltà mi sono affidata ed ho trovato le risposte.

Come dice Papa Francesco “Servire la vita umana è servire Dio e ogni vita, da quella nel grembo della madre a quella anziana, sofferente e malata, a quella scomoda e persino ripugnante, va accolta, amata e aiutata”.